Formaggio Pecorino del Tronto
Con il termine Formaggio Pecorino indichiamo qualsiasi tipologia di formaggio fatto con il latte di pecora. In Italia ne esistono tantissime varietà con caratteristiche dovute a una particolare zona di provenienza, una particolare razza di pecora, dalla lavorazione tipica e dall’invecchiamento caratteristico.
Quest’articolo vuole ricordare ed approfondire la tipologia di formaggio pecorino tipica dell’alta valle del fiume tronto, attraverso i ricordi dei miei genitori.
La cultura religiosa, come consuetudine, esigeva gli agnelli a Pasqua, per cui la pecora doveva partorire circa un mese prima, per permettere ad essi di nutrirsi con il latte materno e superare i dieci chili di peso prima della vendita. L’utilizzo del latte per l’uso caseario iniziava all’incirca ad aprile e si protraeva per i successivi tre mesi, fino in giugno. L’arrivo della primavera forniva il nutrimento degli animali con erba fresca, conferendo al Formaggio locale un sapore davvero particolare, grazie alle essenze erbacee presenti nella zona dei Monti Sibillini.
Anche la lavorazione si discostava, oltre all’alimentazione, da quella degli altri tipi di pecorino, non solo nazionali. Innanzi tutto l’uso del caglio di Agnello per far coagulare il latte e permettere la cagliata. Ogni famiglia aveva il proprio metodo di Acconciarlo, era un procedimento che tramite l’aggiunta di diverse erbe locali, permetteva di ottenere un prodotto unico da coagulo. L’intento era quello di ottenere un formaggio dal profilo sensoriale particolare, che risaltasse quella piccantenza ricercata da sempre e storicamente mai sopita neanche dopo l’arrivo del peperoncino dalle americhe.
Il latte appena munto e filtrato veniva inserito nel Lu Callare, la caldaia di rame, a volte smaltata dallo stagnino, a cui si aggiungeva il caglio così ottenuto a freddo ed il tutto appeso alla catena sul fuoco del camino. Il coagulo arrivava presto, gia alla temperatura del liquido di circa 30 gradi centigradi, la caldaia veniva posta a terra e tramite un bastone di legno di nocella si rompeva la cagliata. Il tutto inserito in appositi cerchi di legno di faggio, opportunamenti stretti all’occorrenza e, con le mani spinto e lavorato per far fuoriuscire la maggior parte del siero, sale grosso in superficie e via in dispenza. Il giorno seguente si toglieva la forma circolare di legno, per essere riutilizzata, mentre la forma di formaggio era girata e cosparsa di sale grosso nell’altra faccia, solo dopo una decina di giorni veniva presa e posta in cantina.
La stagionatura avveniva su assi di legno di faggio e le forme, dopo circa sei mesi, venivano lavate con acqua, per eliminare la presenza di eventuali muffe in superficie e trattate con olio di oliva. Il problema principale rimaneva quello di mantenerlo ad un certo grado costante di stagionatura nel tempo ed evitarne un essiccamento eccessivo. Il luogo perfetto in grado di mantenere una stagionatura costante e per più anni era, dopo il trattamento precedente, tra il grano contenuto nelle grosse cassapanche.
Tra le razze di pecore maggiormente presenti in questi luoghi e forse incrociate tra loro, ricordo la Sopravvissana, la Maremmana, la Bergamasca chiamata in
dialetto Recchiona e la Fabrianese o mezza Recchiona. Esse si caratterizzavano per il giusto equilibrio tra lana, carne e latte. La razza Sardignola produceva molto più latte delle altre, per
questo la composizione delle greggi era sovente un misto di razze diverse.
Si raccontano, tra i miei concittadini, di suggestioni dovute a presunte particolarità e doti afrodisiache del nostro Formaggio, una sorta di viagra naturale, oggi ho potuto ridefinirle sul piano organolettico, grazie alla presenza di una tipica specie di erba, tra le tante il trifoglio rosso, usuale nell’alimentazione delle pecore. Sicuramente una curiosità suggestiva, ma solo per sottolineare come i prodotti tipici locali possono regalarci non solo sapori di altri tempi ma un nuovo connubio con il territorio.
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